NEW SHAKESPEARE

 

Tullio Avoledo - Lo stato dell'unione

 

Con Tullio Avoledo
 
 

dalla Nebbia in Regione fino a toccare la Luna  
 
 
 
LO STATO DELL’UNIONE





di Giuseppe Iannozzi
 
 




Impossibile non riconoscere a Tullio Avoledo una fantasia ai confini della realtà, una realistica fantasia che ottimamente si sposa con gli accadimenti del nostro tempo storico. Tullio Avoledo con “L’elenco telefonico di Atlantide” si è subito imposto all’attenzione di molti critici e lettori, ottenendo, meritamente, un forte consenso. E’ stata poi la volta de “Il mare di Bering”: e nuovamente, Avoledo ha fatto centro, confermando appieno il meritato consenso che ottenne con il suo primo romanzo.
Oggi, Tullio Avoledo torna con un nuovo lavoro, “Lo stato dell’unione”. Impossibile dare un’etichetta alla scrittura superlativa di Avoledo: i suoi romanzi sfuggono, non sono ‘etichettabili’ perché sempre profondamente originali. E’ fiction? narrativa, letteratura o super-fiction? Avoledo scrive a trecentosessanta gradi: nelle trame dei suoi romanzi confluisce tutto un “universo culturale”. L’autore spazia dalla citazione poetica presa a prestito da Emily Dickinson per arrivare fino a Michel Houellebecq, disegnando perfettamente la “mappa” e la “cognizione del dolore”. Ma Tullio Avoledo mette anche in evidenza tutto il marcio che fu di “Tricky Dick” Nixon attraverso un costrutto narrativo vertiginoso un po’ à la P.K. Dick, un po’ à la Chuck Palahniuk, con una sana dose di ironia lisergica à la Jonathan Lethem.      
Ci troviamo in un’Italia costruita su “universi che cadono a pezzi” e la vita di Alberto Mendini, protagonista principale de “Lo stato dell’Unione, è letteralmente a pezzi, e non solo metaforicamente. Alberto Mendini è già sulla cinquantina, un pubblicitario che ha non pochi casini alle spalle e la cui carriera sembra essere destinata a sfracellarsi nel nulla così come la sua vita coniugale. Invecchiato e ingrassato, ormai avviato ad un’inesorabile calvizie, a stento riesce a trascinarsi avanti nel fiume dell’esistenza: la moglie, ancora giovane, giorno dopo giorno, gli rammenta che è ormai un uomo prossimo al collasso. Non meno problematico è il rapporto con i figli: Alberto non riesce ad instaurare con loro un dialogo sincero, nonostante s’impegni parecchio per riuscire a tenersi stretto l’amore dei due bambini. Ma un giorno, quando sembra davvero che il suo destino sia già stato tutto scritto, alla sua porta bussa l’Assessore alla Cultura della Regione: riceve una proposta, un lavoro, metter su una campagna pubblicitaria in favore dell’“Anno dell’Identità Celtica”. Mendini non sa - e non può - rifiutare: seppur non poco perplesso, alla fine si costringe a stringere la mano all’Assessore e ad accettare l’incarico. Entrare è stato facile, fin troppo, e una volta dentro, Alberto Mendini scopre che l’“Anno dell’Identità Celtica” è una truffa. In realtà, nel progetto s’annida il serpente del razzismo, un’organizzazione separatista il cui scopo precipuo è quello di ottenere la creazione d’un nuovo Stato, uno Stato “indipendente”, profondamente razzista, fondato sulla “presunzione d’un’inventata identità celtica”. Nonostante Alberto si opponga al progetto - in maniera piuttosto blanda -, subito ha inizio una serie di morti sospette: ad essere toccati sono quanti stanno lavorando intorno all’Identità Celtica. A poco a poco, Mendini viene a sapere che l’Assessore intrattiene stretti rapporti con il Governatore del Mittelmark, una sorta di redivivo Adolf Hitler. Fa la conoscenza di questo Hitler, anche se sarebbe più giusto dire che Mendini si “scontra”, vis à vis, con questo Hitler. A complicare ulteriormente la già intricata faccenda: Alberto Mendini è vittima d’una sbandata per una delle collaboratrici che insieme a lui lavora al progetto. La fresca ingenuità della collaboratrice lo colpisce dritto al cuore. Ma sarà vera l’ingenuità che questa collaboratrice mostra di sé? O piuttosto Mendini è caduto dentro la trappola d’una femme fatale? Mendini ha tanti dubbi e non gli riesce proprio di venirne a capo: indarno cerca di tirarsi fuori dal progetto di cui dovrebbe coordinare le strategie pubblicitarie affinché l’“Anno dell’Identità Celtica” vada in porto. Mendini può contare solamente su Neil, un vecchio amico americano che negli anni Settanta s’è trasferito in Italia. Mendini l’aveva conosciuto, quasi per caso, qualche anno addietro, in una notte che s’era perso girando in macchina, imboccando una strada sbagliata mentre cercava di recarsi con la moglie ad una festa: chiedendogli alcune informazioni, Neil e Mendini fanno amicizia, l’unica amicizia che Mendini manterrà viva fino alla fine. Ma anche Neil ha un segreto: grazie ad un marchingegno riesce a parlare coi morti e a sapere così il futuro. Ma Neil è anche un ex astronauta che sa dello sbarco sulla Luna, quello del 21 luglio 1969. E’ tutta una Nebbia profonda, impossibile da allontanare, per Alberto Mendini: non può contare su nessuno tranne che su sé stesso e sul quel poco che può - che vuole - scucire a Neil, perché Alberto si rifiuta recisamente di venire a conoscenza del suo destino in anticipo, tramite la bocca dei morti, tramite l’intercessione di Neil. Ma ne “Lo stato dell’unione” c’è molto altro ancora, e io non ve lo posso proprio dire. Dovrete scoprirlo da soli quale sarà il futuro di Alberto Mendini, della sua famiglia, e sempre da soli dovrete scoprire quale futuro è stato diagnosticato per l’Italia.
Con “Lo stato dell’unione”, Tullio Avoledo consegna nelle nostre mani un romanzo completo e perfetto: l’autore ci racconta tutte quelle cose che non si potrebbero dire intorno al 2005, sempre con profonda maturità artistica, sociale e politica. Non siamo di fronte a della semplice e banale fantapolitica, siamo invece “dentro” un futuro che è già il nostro presente, quello che mirabilmente Tullio Avoledo ha fotografato con icastica realistica fantasia ne “gli universi che cadono a pezzi”, nella “mappa” e nella “cognizione del dolore”.
 
 
Lo stato dell’unione - Tullio Avoledo - Sironi Editore - Collana: Questo e altri mondi - Codice ISBN: 88-518-0045-6 - Pagine: 450 - € 17,50
 
 
 

 

LO STATO DELL’UNIONE
 
 
 
INTERVISTA A


T
ULLIO AVOLEDO
 
 
 
 
a cura di Giuseppe Iannozzi
 
 
 
 

 
 
1. Una domanda banale ma utile a chi ancora non dovesse conoscerti: chi è Tullio Avoledo? Come ti descriveresti?
 
Sono nato nel 1957. Fatto importante. Se non fossi nato quell’anno non sarei un quarantasettenne. Sono alto un metro e ottanta. Discretamente sovrappeso, da quando ho smesso di fumare (1995, quasi dieci anni...) e soprattutto da quando ho abbandonato anche l’ultima finzione di attività sportiva (sci da fondo). Mentalmente mi do trent’anni, trentuno al massimo. Mia moglie molti di meno.
Capelli neri (quelli non ingrigiti), occhi marrone con qualche sprazzo di verde. Eredità del mio ramo materno tedesco è un taglio un po’ asiatico dei suddetti occhi, più evidente in mio figlio Francesco. Qualche interazione con un guerriero mongolo (chissà fino a che punto volontaria) da parte di una mia antenata, probabilmente. E probabilmente da lì mi viene qualche occasionale raptus di follia omicida, fortunatamente mai messo in atto.
Considerato che avrei voluto fare il DAMS è già tanto se mi sono laureato in legge, mettendoci un sacco di tempo e cambiando tre università. Nell’ordine, per la cronaca: Padova, Trieste, Urbino. E’ stato scrivendo le motivazioni che dovevano giustificare il cambio di ateneo che mi sono scoperto scrittore...
Faccio il legale per una banca. So che di questi tempi non è più la stessa cosa, ma ritengo comunque di fare un lavoro onesto in modo onesto. Ho sposato una friulana nata a Parigi, e abbiamo due bambini simpatici, belli e intelligenti. La piccola è persino bionda. La chiamo Rosa Luxemburg, per il suo carattere e per la sua tendenza ai sit in di protesta. Viviamo accampati in pochi metri quadrati, in attesa che il mercato immobiliare crolli.
Leggo molto. Soprattutto poesie e saggi. Scrivo poco (lo so che non tutti sono d’accordo su questo, ma la mia percezione soggettiva è questa: scrivo poco).
Passioni: musica classica, giochi al PC (con una predilezione per i gestionali strategici). Segno zodiacale: Gemelli, ascendente Gemelli.
Sono personalmente convinto che la nostra società debba tornare sui propri passi e recuperare quantomeno i principi ideali della Rivoluzione Francese. Liberté, Egalité, Fraternité, insomma. Basterebbe.
 
 
 
2. Dopo “L’elenco telefonico di Atlantide” e il “Mare di Bering”, il tuo terzo romanzo è “Lo stato dell’unione”: come è nata l’idea per questa nuova storia?
 
E’ nata a tavola, a Lignano, e posso dirti anche il giorno: il 25 luglio del 2002. C’eravamo io, Giulio Mozzi e Alberto Garlini. Ero andato a trovarli dopo un corso di scrittura che tenevano lì. Giulio mi aveva appena “scoperto” per la Sironi. Alberto era la prima volta che lo vedevo. Fra le cose di cui parlammo c’erano i soldi che la mia Regione buttava via per sponsorizzare la riscoperta delle radici celtiche. Di Giulio avevo appena letto un racconto apparso su un’antologia locale (locale di Lignano, intendo) dove parlava di alcune villette immaginarie, fra cui una abitata da un astronauta della NASA in pensione. I due stimoli si sono fusi insieme, come Jeff Goldblum e la Mosca nel film di Cronenberg. Poteva andarmi peggio. Quando ho scritto il romanzo ero molto incazzato, ma non particolarmente con i Celti, che non mi hanno mai fatto niente. Era una cosa più in generale. Sono ancora incazzato, per la cronaca.
 
 
 
3. In che cosa differisce “Lo stato dell’unione” dai tuoi precedenti lavori? Quanto ti ha impegnato? Quali i debiti e i crediti, se ce ne sono?
 
E’ un romanzo più “tirato” rispetto ai primi due. L’ho scritto di getto, praticamente in sei mesi. Poi l’ho rifinito e basta. Se dovessi definirlo con un aggettivo direi che è un romanzo necessario. Si è scritto praticamente da sé, e questa è una buona cosa. Sono in debito con chiunque abbia avuto fiducia in un’opera francamente bizzarra e fuori dai canoni classici del giallo, della fantascienza, o di qualsiasi narrativa di genere. Debiti e crediti? Mah... Sono in debito con tutti i miei lettori che mi hanno accordato fiducia sulla parola, e che spero di non deludere mai. Ma sono forse ancora più grato ai lettori che avendo comprato per sbaglio il libro ritenendolo un giallo o un romanzo di fantascienza sono arrivati comunque fino in fondo. In credito... Ma sì: mi sento in credito verso la classifica dei libri più venduti...
 
 
 
4. “Lo stato dell’unione” è un romanzo, a mio giudizio, che accoglie molti spunti socio-fantapolitici che furono di autori quali P.K. Dick, ma anche un energico humour à la Jonathan Lethem, oltre a una marcata passione per Eva Cassidy e per la poesia di Emily Dickinson. Quali gli autori che ti hanno maggiormente influenzato per scrivere questo romanzo? E quali invece gli spunti sociali e/o politici in riferimento all’attuale tempo storico?
 
C’è anche qualcosa di Michel Houellebecq. E di Tony Harrison e Philip Larkin, due poeti inglesi che amo. C’è anche un po’ di Gadda e della sua “cognizione del dolore”, se vogliamo. Ma l’autore che mi ha ispirato di più è decisamente Chuck Palahniuk, e la sua potente mistura di normale e bizzarro, di linguaggi diversi metabolizzati all’interno di strutture narrative potenti ma imperfette... E’ la dissimetria che causa il fenomeno, diceva Cartesio...
Il dodici settembre del 2001 cenai ad Aviano con Mauro Covacich e sua moglie. Parlammo di quello che era successo il giorno prima a New York, ma anche di letteratura. La moglie di Mauro mi parlò di “Invisible Monters”. Io non conoscevo l’autore. Il giorno dopo ordinai tutti i suoi libri disponibili su Amazon. Così Palahniuk nella mia memoria è legato in modo inestricabile al Crollo delle Torri. Ma anche due fumettisti, Garry Trudeau di “Doonesbury” e il Gerard Lauzier de “La corsa del topo” (soprattutto quest’ultimo) fanno parte del genoma del libro, che è essenzialmente un romanzo in tempore belli. Descrive un angolo apparentemente pacifico di un impero in guerra.   
 
 
 
5. Alberto Mendini è il protagonista principale della tua ultimo lavoro: chi è questo pubblicitario semifallito che cerca, indarno, di riemergere da sé stesso?
 
E’ un eroe del nostro tempo. Imperfetto, incompleto. Consapevole ma al tempo stesso incapace di essere all’altezza della sua coscienza. Uno che legge “L’Espresso” e crede di essere di sinistra... E’ anche un tecnico. I tecnici veri (non i manager!) adorano le sfide, e portano a termine anche le imprese più nefande pur di dimostrare di esserne capaci.
Mendini è un ingranaggio di un progetto criminale. E’ al tempo stesso anche un uomo buono, e a taluni persino simpatico. Esprime il mio disagio di uomo e di professionista.


 
6. E’ possibile leggere ne “Lo stato dell’unione” una provocazione - o un atto di resistenza - contro alcune mosse politiche che oggi si stanno consumando davanti ai nostri occhi?
 
Quando guardo le vetrine delle librerie, nella sezione storica vedo un sacco di libri che rievocano questo o quell’aspetto del regime fascista. Accendo la TV e spesso mi imbatto in vecchi cinegiornali Luce o documentari di Leni Riefenstahl. Il sindaco di T. usa in diretta la celeberrima frase “mancò la fortuna, non il valore, come disse qualcuno”. Non sa nemmeno da dove arriva la citazione... Il giorno dopo lo stesso sindaco riceve una delegazione di “esuli dai Sudeti”. Esuli dai Sudeti, cazzo... A volte mi sembra di vivere in un mondo parallelo, in cui i nazisti non sono ancora al potere ma ci stanno provando. E il bello è che nessuno se ne accorge. Di qui il mio libro.
 
 
 
7. Tanti i personaggi che si muovono tra i sogni e gli incubi interrotti - ma in continua evoluzione - dell’intricata trama de “Lo stato dell’unione”: Neil Cassidy, Hans Albert Mayer, l’Assessore alla Cultura della Regione, e altri ancora. A chi, o a che cosa, ti sei ispirato per renderli così reali, icastici?
 
Alle persone che conosco, essenzialmente. Tranne che Rabo Mishkin. Quello è spuntato dal nulla. Su di lui non ho nessun controllo. Rabo, come il personaggio di un film di Woody Allen, è uscito dallo schermo su cui si proiettava la versione cinematografica di “Porci con le ali”. E’ Lou Castel che interpreta il professore sporcaccione, quello che se non ricordo male si scopa sia Rocco che Antonia. Aggiungi un po’ di pelo a Lou Castel e hai Rabo. E’ entrato nel primo libro e non è più voluto uscire. Aurelia Copetti è un mix secondo me felice di diverse belle ragazze che ho conosciuto (non in senso biblico, purtroppo). Alberto c’est moi, anche se fisicamente non mi somiglia. I bambini sono i miei, la moglie no. Insomma, è una cosa un po’ complicata da spiegare. Rubo un po’ qui e un po’ là. L’altro giorno una signora mi ha detto “Guardi, qui è come il Circolo Barlum”, e una frase così è inevitabile che prima o poi finisca in un mio libro. Magari messa in bocca a un maschio... Se uno scrittore va in giro con le orecchie ben dritte, le idee, le frasi, i personaggi stessi vengono da soli...
 
 
 
8. Neil Cassidy nasconde dentro alla sua anima un segreto che riguarda lo sbarco sulla Luna del 21 luglio 1969: perché riproporre l’idea che lo sbarco sulla Luna fu, forse, tutto un bluff?
 
E perché no? Il presidente USA all’epoca era “Tricky Dick” Nixon. Uno per cui gli avversari avevano coniato il felice slogan “comprereste un’auto usata da quest’uomo?”. No, un’auto no, ma lo sbarco sulla Luna sì...
In realtà mi andava di parlare di Nixon e del 1969 per parlare di Bush e del 2005. Della caccia alle introvabili armi di distruzione di massa. Delle grotte di Tora Bora. Dei morti sotto il fuoco amico. Non ne parlo esplicitamente, ma sono tutte cose presenti sotto la trama delle parole del mio libro.
 
 
 
9. Neil è anche uno che sente le voci dei morti che gli raccontano il futuro, o il passato: quale legame lega Neil ad Alberto Mendini?
 
Una giornalista mi ha fatto presente che il rapporto fra Neil e Alberto è l’unico rapporto d’amore del libro. Non sono del tutto d’accordo, ma la frase mi ha fatto riflettere. Neil e Alberto sono amici. Una cosa rara, di questi tempi. Più preziosa dell’oro. Poi Neil è anche incuriosito da questo morto che vive, da questo amico che parla dal futuro, che è già oltre. Lo guarda e pensa che è già morto, e che è tornato dalla morte... Dev’essere strano. Chi non vorrebbe avere un amico così? E poi, a differenza di Lazzaro, non puzza...
 
 
 
10. Il forse finto sbarco sulla Luna e l’idea di una Identità Celtica: c’è un legame, un’allegoria fra le due cose? E se sì, in che modo e perché?
 
L’idea che avevo, e che ho, è che se spendi abbastanza quattrini e ti impegni un po’ puoi convincere la gente di qualsiasi cosa. Tanto la gente non ha più memoria. O conoscenze storiche. Aldous Huxley e George Orwell l’hanno intravisto da tempo, il potenziale sfruttamento dell’ignoranza delle masse da parte di una dittatura. Non occorre convincere tutti, e subito. Basta convincere abbastanza gente e zittire gli altri. E poi ci vuole un po’ di tempo, ma non certo decine d’anni. Credo siamo rimasti in pochi a incazzarsi se un telegiornale dice una bestialità storica. E col tempo la disinformazione si sedimenta e crea una nuova “storia”. Ad esempio è normale che tutti attribuiscano a Goebbels la frase “quando sento la parola cultura metto mano alla pistola”. In realtà la frase venne pronunciata da un altro funzionario nazista, Hans Joost, e parlava di una Browning. Ecco, un’informazione così sembra una cazzata. Ma io tengo alla precisione anche nei dettagli. Altrimenti poi uno finisce per sentire parlare dei “profughi dei Sudeti” e si beve la frase senza riflettere su cosa abbiano rappresentato i Sudeti nella storia, e senza capire chi sono veramente questi “profughi”... Non bisogna transigere su niente. Su niente. Pesare tutto, verificare tutto. Di qui il mio odio per Dan Brown. E per la famiglia Bush.
 
 
 
11. E’ in corso, già da un po’ di tempo, un infuocato dibattito intorno al romanzo popolare e alla letteratura. La tua opinione in merito è…
 
Non ho opinioni in merito. Non sapevo nemmeno ci fosse una polemica del genere. Che non m’interessa e sulla quale non ho niente da dire. Una volta un settimanale mi ha chiesto cosa ne pensavo del divorzio fra Michelle Hunzicker e Eros Ramazzotti. Mi brucia ancora, aver risposto. E’ stata l’ultima volta che rispondo su una cosa che non conosco.
 
 
 
12. A chi consiglieresti di leggere “Lo stato dell’unione”? Ma soprattutto come andrebbe letto, in quale chiave? Ovviamente se ce n’è una valida più di un’altra.
 
Non consiglio il mio libro a nessuno che non sia disposto a lasciarsi stupire. Il libro va letto abbandonandosi alla storia senza cercare una logica, come quando si fa una passeggiata senza cartine o guide in una città in cui non si è mai stati prima, e quindi non si ha assolutamente idea di cosa ci sia dietro l’angolo, o se quello che vedi è importante o no... 
 
 
 
13. Quali i tuoi progetti narrativi per il futuro?
 
A novembre uscirà per Einaudi un romanzo completamente diverso, una storia seria su un pubblico ministero in un processo per crimini internazionali di guerra. E’ un sostituto pubblico ministero, in realtà, perché gli hanno fatto fuori il capo. E’ un uomo che deve affrontare diversi fantasmi: in primo luogo quello della sua inadeguatezza al compito che gli è stato assegnato. E poi quello del fatto di essere americano, e quindi cittadino di un paese che a sua volta ha commesso delitti in guerra. E’ un bel personaggio, una bella storia. Io penso a questo romanzo col titolo “Lezione sull’ombra”, ma penso che il titolo definitivo sarà diverso. Sto lavorando a questo nuovo libro da quasi due anni. Nei libri successivi, se mai troverò il tempo di scriverli, tornerò al Nordest. E rimetterò in corsa la Cecilia Mazzi de “L’elenco telefonico di Atlantide”.
 
 
 
Grazie Tullio Avoledo, sei stato gentilissimo e molto paziente a rispondere a tutte queste domande. A Te, tutta la mia stima ed amicizia.
 
Che ricambio di cuore.

 

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